Omelia XXIV Domenica T.O.-A

(Matteo, 18,21-35)

Ave Maria!

Tutti quanti viviamo nella vita momenti difficili e anche molto dolorosi a motivo di persone vicine alla nostra comunità, alla nostra famiglia o anche amici che credevamo tali, ma che poi un giorno ci hanno voltato le spalle, – e non sappiamo in fondo perché -, con qualche parola o azione di troppo: un’offesa gratuita, senza reale motivazione, o almeno così a noi pare; un gesto di risentimento, una recriminazione che può durare anche molto tempo; qualsiasi cosa, insomma, che rompa la fraternità, la comunione, lo spirito di famiglia sulla quale pensavamo di riposare. Diventiamo così, ad un tratto, persone realmente offese da qualcuno a noi vicino e il dolore è tanto grande quanto più pensavamo di poter contare, per la nostra vita, su questa o quella persona, su questo o su quell’amico. Sperimentiamo così una sorta di morte e che può mettere a repentaglio non solo la nostra fiducia negli altri, ma anche in Dio. E questo proprio perché la nostra carità fraterna si fondava, ovviamente, nei valori trascendenti della fede.

Ciò non deve sorprendere: il peccato umano, qualunque esso sia, non distrugge soltanto la persona che gli apre la porta dell’anima, ma anche quello che sta intorno ed ha conseguenze devastanti a tal punto che noi, povere e piccole creature, non possiamo neppure prevedere. E soltanto Dio può aiutarci nel senso di preservarci dal peccato del fratello o della sorella, perfino dai nostri familiari o dai nostri figli, ovvero conservarci nella pazienza della carità, accettando le circostanze dolorose della convivenza umana, senza abbandonare il nostro rapporto fraterno e aggrappandoci con tutte le nostre forze alla presenza di Dio.
Ed ecco, allora, la domanda del cuore: come si deve comportare un discepolo o una discepola di Gesù, quando viene in qualche modo offeso da un comportamento che viene dal peccato umano, dal risentimento, dalla oscura volontà di distruggere la fraternità e la comunione?
 
Così vediamo l’Evangelista Matteo, nei brani evangelici di queste ultime domeniche, assai preoccupato di correggere i conflitti, le dispute e gli scontri che possono sorgere, - e infatti, puntualmente, avvengono -, nella comunità dei discepoli di Gesù, mite ed umile di cuore! Probabilmente sta scrivendo queste pagine del messaggio evangelico in dei momenti in cui, come si dice nel suo Vangelo, “si sta raffreddando l’amore di molti (Mt 24,12). E quando ci raffreddiamo nell’amore, il peccato, accovacciato alla porta della nostra anima, come accade a Caino nei confronti del fratello Abele, è pronto a devastarci e a devastare tutto quello che ci sta intorno. Purtroppo!
Per questa ragione Matteo concretizza molto dettagliatamente come si deve agire per estirpare il male all’interno della comunità, certo rispettando sempre le persone, ma cercando anche la “correzione in disparte”, ricorrendo al dialogo in presenza di “testimoni”, facendo intervenire la comunità oppure separandosi addirittura da chi potrebbe recare danno ai discepoli di Gesù. Un equilibrio difficilissimo. E anche se tutto ciò potrebbe sembrare necessario in determinate circostanze, rimane comunque la domanda di come deve agire in concreto la persona offesa da questo o da quel comportamento? Che deve fare il discepolo di Gesù che vuole seguire i suoi passi e collaborare con Lui, aprendo le vie al Regno di Dio, il regno della misericordia e della giustizia per tutti? L’Evangelista Matteo, in verità, non poteva dimenticare alcune parole di Gesù raccolte da un vangelo scritto prima del suo. Non erano facili da capire, ma riflettevano quello che c’era nel cuore di Gesù. E sebbene siano passati venti secoli, noi discepoli e discepole di Gesù non possiamo diminuirne il contenuto.
 
Come sempre, in rappresentanza degli altri discepoli, è Pietro che si avvicina a Gesù per porgli la fatale domanda: “ Se mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?”. Bisogna dire subito che la domanda di Pietro non è meschina, ma anzi molto generosa. Infatti, Pietro ha ascoltato le parabole di Gesù sulla misericordia di Dio e conosce bene la sua capacità di comprendere, scusare e perdonare. Dunque, anche lui è disposto a perdonare “molte volte”, ma non c’è forse un limite anche al perdono? La risposta di Gesù è chiarissima: “Non ti dico fino a sette volte, ma a settanta volte sette”. Devi cioè perdonare sempre, in ogni momento, in maniera incondizionata. Nel corso dei secoli si è voluto mitigare, peraltro, questo insegnamento di Gesù con molti argomenti tutti convincenti e razionali: “perdonare sempre è dannoso”, “è un incentivo per l’offensore”, “si deve esigere prima il pentimento” e così via. Anche la stessa psicologia del profondo ci ha avvertiti che se l’offensore non riconosce la sua offesa, come parte del suo inconscio, allora diventa sempre più distruttiva di ogni relazione umana. La parabola che racconta Gesù, a questo proposito, contiene perfino tutti questi argomenti razionali, ed è stata giustamente definita la parabola “del servo senza cuore”: gli è stato perdonato o condonato tutto, ma lui non è capace di perdonare o condonare niente all’altro servo che gli deve qualcosa.
 
Così la parabola che era iniziata in modo tanto promettente con il perdono del re, termina tragicamente: tutto finisce male, mentre il perdono del re non riesce a introdurre un comportamento più compassionevole tra i suoi stessi subordinati. E allora cosa sta cercando di suggerire Gesù? A volte, in realtà, pensiamo ingenuamente che il mondo sarebbe più umano se tutto fosse retto dall’ordine, dalla rigida giustizia e dal castigo di coloro che agiscono male, anche e soprattutto nei confronti dei propri simili. Ma in questo modo non costruiremmo, forse, un mondo più tenebroso? Che sarebbe una società umana in cui il perdono fosse soppresso alla radice? Che sarebbe di noi e delle nostre relazioni più intime e profonde, senza il perdono? E che sarebbe di noi se Dio non sapesse perdonare? Di fatto, la negazione del perdono ci sembra a volte la reazione più normale e perfino la più degna davanti all’offesa, all’umiliazione e all’ingiustizia? Non è questo, tuttavia, ciò che umanizzerà il mondo. Una coppia senza mutua comprensione dei propri e rispettivi limiti, si distrugge; una famiglia senza perdono è un inferno; una società o una comunità umana senza compassione è disumana. Tanto per cominciare, ma non è tutto.
 
In realtà, la parabola di Gesù è per noi una specie di “trappola” e lo diceva molto bene Henri Lacordaire, un celebre predicatore domenicano dell’Ottocento: “ Vuoi essere felice per un momento? Vendicati. Vuoi essere felice per sempre? Perdona.” A volte dimentichiamo che il processo del perdono, poiché di un cammino si tratta, fa più bene all’offeso, poiché lo libera dal male, fa crescere la sua dignità, gli dà la forza per ricreare la propria anima, gli permette di dare inizio a un nuovo corso della sua vita. E’ questo che deve sperare il discepolo o la discepola di Gesù, perché quando Lui invita a perdonare “settanta volte sette”, sta invitando a seguire la via più sana e più efficace per sradicare il male dalla nostra vita. E le sue parole acquistano una profondità ancora maggiore per chi crede in Dio come fonte ultima del perdono: “ Perdonate e sarete perdonati”.
 
Gesù non è un ingenuo sentimentale e sa bene che tutto questo è molto difficile per noi ed è anche un grave rischio: quante volte il nostro perdono non ha fatto desistere il nostro offensore a rincarare la dose delle sue offese? Quante volte abbiamo perdonato e invece l’altro si è sentito più sicuro e tutt’altro che disposto, come il servo dal cuore duro, a cambiare il suo atteggiamento? Così Gesù non ci risolve i nostri problemi di relazioni umane conflittuali e distruttive. Se lo facesse di colpo, ci toglierebbe la nostra libertà e soprattutto la libertà di amare e di scommettere, sempre e in ogni circostanza, sulla libertà dell’amore. Ci chiede di pregare, pregare incessantemente, innanzitutto, per coloro che ci hanno offeso o fatto del male, ed è nella preghiera a Dio che noi conserviamo intatta la nostra libertà di amare, nonostante i colpi della vita. Ci chiede di non interrompere, per nessuna ragione, quel fiume dell’amore e della misericordia che nasce da Lui. Ed anzi di non esaurire la sorgente dell’amore che permette a noi stessi di vivere e di respirare. Per questo ci invita, nella preghiera del Padre nostro, a pregare il Padre: “ Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”.
 
Questa preghiera è veramente difficile finché non siamo stati ricolmati anche noi dalla misericordia di Dio. Finché, dinanzi a Dio, ci presentiamo come non colpevoli e cerchiamo, senza rendercene neppure conto, di tenere Dio a rispettosa distanza e mettendolo al posto del debitore (perché mi è successo questo? Perché hai permesso che mi venisse fatto questo male? Ecc. ecc.). Come se Dio ci dovesse qualcosa in cambio di tutto quello che possiamo fare per Lui. Anche il Signore vuole essere amato da noi nella libertà dell’amore e non già per ragioni opportunistiche ed egoistiche. Eppure, se un giorno accettassimo davvero di dovergli tutto, senza più alcun credito da parte nostra, mentre siamo noi i debitori insolvibili da sempre, allora la tenerezza e la misericordia invaderanno la nostra anima e diremmo, come la Santa Vergine: “L’anima mia magnifica il Signore, e il mio spirito esulta in Dio mio Salvatore”. La fede in un Dio che perdona è dunque per il credente uno stimolo ad amare e una forza inestimabile di speranza, contro tutti i colpi della vita e degli uomini. Per chi vive dell’amore incondizionato di Dio e lo riversa su ogni creatura, il perdono è una via di santità. Attua la rivoluzione dell’amore evangelico, la via più difficile e più rischiosa, ma anche la via della guarigione delle nostre ferite, già qui sulla terra. Amen.

 

 

 

don Carmelo Mezzasalma
San Leolino, 12 settembre 2020

 

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